domenica 31 maggio 2015

IL GENIO DI WANDA MARASCO BRINDA DA MASTROBERARDINO



IL LIBRO DI NERI POZZA IN CORSA PER LO STREGA
























Venerdí 22 maggio u.s. la nostra Associazione, Logopea, nell’ambito della rassegna “Librazioni”, diretta da Armando Saveriano e Davide Cuorvo, ha presentato il volume di Wanda Marasco, “Il Genio dell’Abbandono”, presso l’elegante sala-convegni delle aziende vinicole Mastroberardino, ad Atripalda.
Wanda Marasco, poetessa e scrittrice già affermata nei cataloghi delle eccellenze letterarie a livello nazionale e internazionale, regista, attrice e spirito di numinoso eclettismo, è finalista, con questo romanzo sulla vita e le peripezie artistiche e personali dello scultore partenopeo Vincenzo Gemito, con forti probabilità di vittoria (intrighi e manipolazioni permettendo), al prestigioso Premio Strega di quest’anno.
Con la collaborazione della pro loco di Montefredane, di cui è presidente Elvira Micco, l’Associazione “Agorà”, il Premio Prata, e il Premio di Poesia e Giornalismo “Giuseppe Pisano”, nonché sotto l’egida signorilissima delle Aziende Vinicole Mastroberardino, Logopea ha organizzato il fortunato evento in concomitanza con il maggio dei libri 2015.
Magiche letture interpretative a cura di Armando Saveriano, performer della recitazione che non delude mai, accompagnate dall’estro pianistico della giovane e bravissima Sofia Santosuosso, puntuali e interessanti prolusioni di Antonietta Gnerre e Monia Gaita.
Un pubblico folto e attento ha seguito in perfetta concentrazione relatori e brani scelti per la lettura interpretativa, non lesinando sugli interventi in chiusura: domande sulla genesi del libro, sulle caratteristiche del personaggio travagliato e affascinante, sulla documentazione storica di Napoli e di Parigi, sulla scelta del linguaggio che ricombina dialetto e lingua ufficiale, italiano e francese.
La scrittrice fa di “Vicienzo” Gemito (registrato per errore con la consonante ‘m’ al posto della ‘n’) un’icona mitologica con tocchi metafisici, un artista eclettico, bizzarro, dall’indole ribelle e manesca, favorito e deprivato, di volta in volta, dal soffio ineffabile del ‘genio’ creativo, che lo battezza e lo danna, lo trascina alle stelle e lo precipita nell’abiezione, in un isolamento purgatoriale, rendendolo un incrocio tra Hermes ed Efesto,
Orfeo delle sculture e Dioniso nelle sregolatezze, tra apollineo e demònico, tentato e pentito, spodestato e incoronato, mattatore di salotti, ingordo di fiori del fango luetici, impulsivo e meditabondo, folle e savio, duale anche nello sdoppiamento della personalità troppo ingombrante per essere gestita senza potenti contraddizioni o senza quelle che Pirandello ed Eduardo avrebbero definito ‘mosse d’anima’.
È finalmente letteratura d.o.c., dopo tanta stampa piccina, melensa, ripetitiva, fedifraga della qualità, meretricizzata dagli stratagemmi per accaparrarsi i favori dei probabili compratori, destinata ad un pubblico di consumisti pigro e fondamentalmente ignorante; è finalmente la rivincita della nostra migliore scrittrice italiana, che investe tutto in questo lavoro epico, lirico, commovente e terribile, aspro e sincero, malinconico e intenso nelle pieghe psicologiche, nei risvolti storico-epocali. Figure grottesche, buffe, astute, intelligenti e implacabili, oppure goffe e istupidite dagli stenti e dall’invidia, si affacciano dalle quinte, dentro e fuori della ‘napoletanità’, compaiono e svaniscono, ma tutte giocano un ruolo che lascia l’impronta digitale sull’intelletto e sul cuore.
Nel cortocircuito morale che non è solo dell’Italia, ma che in Italia è particolarmente acromegalico, questo romanzo onesto, genuino, complesso e struggente, di lettura impegnativa assai, dato il montaggio teatrale e cinematografico (flash-back e sottocutanee saette di flash-forward), data la solidità dell’impianto socio-antropologico e artistico, può frantumare le frontiere o divenire lettura colta per una cerchia di iniziati; in ogni caso vince sulla esilità isterica e nudiccia di pubblicazioni marchiate a caldo secondo la tendenza (autori mediocri che si sono costruiti un personaggio mediatico dato in pasto alla ragazzaglia o a vecchie, futili bambole abbonate a Cronache Vere).
Di sicuro leggere Marasco e Gemito ‘redivivo’ è affrontare un’esperienza a tinte forti, è diventare passeggeri di una macchina del tempo, che mescola le carte abilmente, senza imbrogliare, allo scopo di rendere vieppiù ficcante l’avventura privata e mondana, distruttiva e creazionale, attraverso il disincanto e l’indipendenza ideologica dell’autrice.
                                                                                
                                                                                              LOGOPEA






Da sinistra: Wanda Marasco,
Armando Saveriano, Antonietta Gnerre
Wanda Marasco
















Da destra: Wanda Marasco, Monia Gaita
Monia Gaita
















Da destra:
Wanda Marasco,
Piero Mastroberardino
Da destra: Davide Cuorvo,
Rappresentante Neri Pozza Editore,
Armando Saveriano, Monia Gaita

















Wanda Marasco mentre rilascia
dedica autografa
Da destra: Armando Saveriano,
Wanda Marasco













Da sinistra: Sofia Santosuosso,
Davide Cuorvo


mercoledì 27 maggio 2015

VERSIPELLE 18: LA POESIA TRA LE ANGOSCE DEL SOCIALE






Poesia come campo d’azione che denuncia e che si oppone agli abusi: quelli di un potere tracotante che dissimula e si perveste, in politica; quelli delle cosche mafiose colluse con lo Stato; quelli sul campo del lavoro, con gli sfruttamenti dei bisognosi (i migranti, i disoccupati, i disperati del nuovo status della miseria estrema), o con il mobbing; quelli che avvengono in famiglia, nel nido che si trasforma in covo di vipere (‘Inimici hominis domestici eius’). Molto spesso mogli sottomesse e vergognose di confessare le percosse inflitte senza motivo da mariti ubriachi e fannulloni; figlie stuprate da genitori viziosi; madri psicotiche e maniache religiose, sul modello della Carrie kinghiana o su quello del mostro di Cogne, la Franzoni. E i figli, vittime incolpevoli, indotti a evadere da un clima intollerabile, possono a volte cadere nelle trappole della droga. È quel che accade al misconosciuto Eros Alesi (Ciampino, 1951/Roma, 1971). Assurdo e crudele morire a vent’anni, nell’indifferenza di chi avrebbe potuto aiutare e non l’ha fatto. Anzi, forse ha dato una spintarella allo sconforto, sbarrando l’ultima porta socchiusa, girandosi dall’altro lato per costruirsi un alibi e scrollarsi dalla coscienza la responsabilità di tendere una mano. “Amicum an nomen habeas, aperit calamitas”, recitava Publilio Siro nelle Sententiae, e Cicerone, nel De Amicitia, riprende un detto di Ennio: “Amicus certus in re incerta cernitur”.
Simone Lucciola, scrittore, musicista, illustratore, leader del trimestrale “deComporre”, dedica sul numero 19 di gennaio 2015 uno spazio illuminante e risarcitorio a questo giovane poeta precipitato dal Muro Torto (luogo tristemente famoso per i suicidi), forse per por fine a una vita bruciata a causa di tante sventurate contingenze; non ultima la tiepidezza se non l’ostilità degli intellettuali contemporanei. Ecco per esempio cosa scrive Pasolini nel ’73 recensendo le poesie dell’Almanacco dello Specchio per ‘Il Tempo’:
“[…]sono tutti senza rilievo, anche quell’Eros Alesi di cui si presenta un puro e semplice documento di vita (è morto in manicomio a vent’anni, dopo un viaggio in India, drogato con una trista compagnia di Piazza Bologna. Era di Ciampino. Suo padre era fantino e si ubriacava maltrattando la madre. Di qui la solita tragedia che più o meno abbiamo vissuto tutti. Solo che in questi anni la moda ha voluto che questa tragedia fosse intollerabile ed enfatica, e ha preteso soluzioni estreme. Non ho nessuna particolare pietà per questo disgraziato ragazzo, debole e ignorante, che è morto per la stessa ragione per cui si fanno crescere i capelli. Meno diritti si hanno e più grande è la libertà. La vera schiavitù dei negri d’America è cominciata il giorno in cui sono stati concessi loro i Diritti Civili. La tolleranza è la peggiore delle repressioni. È essa che ha deciso la moda della droga, della morte e della rivolta estremistica. I più deboli ci sono cascati, con l’aria di essere dei campioni. In realtà sono stati campioni del più spietato conformismo.).” 
Una crudele stroncatura. Giuseppe Pontiggia, invece, così motiva l’inserimento di Alesi nell’Almanacco: “Eros Alesi è morto tragicamente a vent’anni: il resto non è silenzio, ma una voce che cerca di riprendere con la vita un rapporto che pareva perduto, e con gli uomini un contatto che si fondi sulla verità spesso atroce delle distanze piuttosto che su false speranze di identità. La ‘Lettera al padre’ ne è una disperata celebrazione, con i suoi ‘che’ ripetuti i quali, nella loro mancata epicità, rimandano all’insofferenza per un ambiente umano che gli risultava ossessivamente angusto e che gli soffocò, tranne che sulla pagina, le potenzialità affettive. Perciò la parola riacquista quella forza violenta e percussiva che sempre si manifesta allorché la poesia tende a convertirsi in energia di esistere, e l’esistere viene pagato di persona da chi ne scrive (un poeta come Campana, in Italia, ne è stato l’esempio più grande).Non mancano, in questi testi, cadute e dispersioni, dovute anche alla stesura occasionale e frammentaria; così come si evidenziano legami vissuti in modo diretto e autobiografico, con quella poesia americana di protesta (e con Ginsberg in particolare) la cui vitalità sopravvive alla moda che ha contribuito a divulgarla. L’autenticità dell’esperienza e l’intensità dell’accento personale bastano però ad Alesi per riscoprire ancora una volta la parola come punto di intersezione e di comunicazione tra l’io e gli altri.”
Di Alesi non avremmo saputo nulla, o tanto poco, se non avesse avuto qualche occasione di visibilità postuma, per esempio nell’antologia “Il pubblico della Poesia”, a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, poi ristampata nel 2004 da Castelvecchi (Roma) o grazie al volume “Poesia degli anni settanta” (Feltrinelli, Milano, 1979), a cura di Antonio Porta. Secondo Giorgio Manacorda, “(Alesi) un vero talento, poteva diventare il poeta ‘americano’ del Novecento italiano”.
Nel corso del nostro ‘Versipelle’ 18, il brillante Davide Cuorvo interpreta Alesi in una delle sue poesie più significative: “Mamma Morfina”. Nel volume ‘La Poesia Italiana oggi: un’antologia critica’, si legge, a proposito dello sfortunato Alesi: “Le sue poesie sono preghiere. Forse le uniche preghiere laiche della letteratura italiana degli ultimi decenni. La religiosità che pervade questi testi e dà loro forma (il verso inedito, mai visto, generato dal ‘che’ percussivo di cui parla Cordelli) è qualcosa di molto fondamentale, assolutamente originario. Alesi, che non sa nulla, se non la propria disperazione, riparte dai rapporti primari che hanno generato il sentimento religioso: il suo non è altro che il bisogno di amare il padre e la madre, e di esserne riamato. Se questo non avviene – e per lui non è avvenuto – nasce la religiosità: si adora chi non ci ama, e, anzi, è terribile con noi. La sua bellissima poesia al padre non è altro che un “padre nostro che sei nei cieli” e la poesia alla morfina non è altro che una poesia alla madre, che aiuta, consola, lenisce – e strangola –. L’amore materno è venefico almeno quanto la violenza del padre è distruttiva. Se le cose stanno così non resta che pregare le due divinità, la fonte di ogni possibile benessere e di ogni legge. Si tratta di preghiere che nascono da una solitudine totale, ma, direi, fondante. Alesi parte da questa ferita immedicabile e deve esprimere, per sopravvivere, il proprio amore senza oggetto, la propria “inesistenza”, quindi, ma non può rinunciare “ad esserci”. La preghiera, un modo di comunicare con le divinità assenti, non basta, non può bastare: da qualche parte e in qualche modo Alesi deve trovare la sensazione di non essere assolutamente e irrimediabilmente solo, e in effetti i suoi testi ci comunicano una dimensione corale. Leggendoli sentiamo che non parla solo per sé e non parla solo alle sue cattive divinità. Alesi è il frammento di un mondo che parla tramite lui, e non sono i giovani della sua epoca (non è una dimensione sociologica), è la giovinezza, è la gioventù come tale. Alesi ci sta dicendo che lui è bello dentro, ci sta dicendo che non è ancora morto, ci sta dicendo che ha un mondo dentro di sé…”
Manacorda ha inoltre raccolto, insieme a Paolo Febbraro, all’interno della pubblicazione “Poesia 2009- Quattordicesimo annuario” (Gaffi, Roma), una testimonianza diretta dell’amico di Alesi, Remo Marcone, a cui Eros affidò alcuni quaderni autografi un mese prima della sua scomparsa.
Alcune delle ospiti di questa edizione maggiolina de Il Versipelle, Agostina Spagnuolo, Maria Ronca, leggeranno un personale contributo poetico sul tema “droga e smarrimento”. Agostina Spagnuolo, nel suo modo/mondo memoriale, capace di registri pulsionali notevoli, si sta recentemente riaccostando alla poesia che ha solo momentaneamente messo da parte, impegnata nella stesura del secondo volume storiografico/paesologico irpino. Maria Ronca si basa sullo specchio infranto dei sogni e delle illusioni, sul fiore purpureo della violenza (non solo fisica) sulle donne. Suo il volume, tra saggio, prosa e poesia: “Quello che lo specchio non riflette”; in esso, vicende traumatiche e dolorose, che vogliono gridare al mondo una realtà di cui ancora troppe donne restano succubi, ricattate moralmente dalla paura delle conseguenze (scandalo, opinione pubblica divisa, disagio dei figli, vendette parallele, stigma sociale, isolamento, pregiudizio, ignoranza e malinteso). Episodi realmente accaduti, nei quali l’autrice ha fatto ricorso a pseudonimi per ovvi motivi (Luciana, Giulietta, Alice, Maria Laura, Vittoria e le altre); donne còlte nei loro momenti drammatici, in cui hanno creduto d’impazzire o di morire di dolore, ma che hanno trovato la forza di ‘risorgere’, dopo essersi opposte coraggiosamente alle avversità, e aver vinto la propria battaglia contro l’ignominiosa tradizione dell’omertoso tacere e del rassegnoso continuare a subire in silenzio. Con sensibilità e con energia partecipativa, la Ronca dipana incisivamente ogni storia, corredata di versi ora epigrammatici e secchi, ora scanditi da giunzioni liriche di pulsante emotività, i cui esiti vanno oltre la passione per la scrittura e per la giustizia.
Rosa Mannetta le fa eco, con un libro edito da Faligi, “Storie di vita rubata”, che raccoglie e racconta altre testimonianze sulle conseguenze della attuale crisi (economica, identitaria e valoriale); uomini e donne disorientati, feriti, plagiati, ingannati da un meccanismo sociale e politico perverso, che causa insicurezza, umiliazione, solitudine, e specula sulle sofferenze, sulla malattia, sulla morte. Con uno stile limpido e discorsivo, Mannetta, con la collaborazione di Francesco Orciuoli, Anna Ansalone, Elena La Verde, ripercorre i vissuti di Lavinia, Mercedes, Giorgio, Alfredo, Cecilia e tanti compagni di sventura, proposti nell’immediatezza del presente narrativo.   
Alessandra Iannone, attrice di carattere, dal potente temperamento drammatico, sottovalutata, con il suo compagno Antonio Mazzocca (bravissimo interprete pirandelliano, cechoviano e pinteriano), in certi ambiti che preferiscono mantenere nell’ignoranza delle potenzialità i talenti, e premiare i mediocri di cui non si può aver paura, nel Versipelle 18 emerge ed esordisce in qualità di poetessa dal verso lungo e raddensato, carico di simbologie e di pathos.
La sezione teatro vede impegnata Mena Matarazzo nel gustoso tȇte-à-tȇte dello sketch “L’Avarizia”, pezzo forte della coppia Sandra/Raimondo, e poi nel celebre pezzo napoletano “Bammenella”, dal repertorio di Angela Luce, duettato con il versatile Michele Amodeo. La canzone “Era de maggio” (1885), versi di Salvatore Di Giacomo, musica di P. M. Costa, recitata e cantata, chiuderà quest’ennesimo e ben nutrito appuntamento con il nostro ‘Versipelle’ (al quale partecipano Mirella Merino da Conza, Gennaro Iannarone, Hera Guglielmo, Christian Cioce, Ilia Caso e Oscar Luca D’Amore), e che, grazie a Dio, riesce a interessare, incuriosire e attirare un pubblico desideroso di crearsi un’alternativa all’ovvio e alla noia dell’abitudinario.

                                                                                                         LOGOPEA





Agostina Spagnuolo
Da destra: Armando Saveriano,
Oscar Luca D'Amore






Davide Cuorvo, Hera Guglielmo
Davide Cuorvo





Eros Alesi
Da sinistra: Gennaro Iannarone,
Monia Gaita
















Giorgio Manacorda
Giuseppe Pontiggia
















Maria Ronca
Da destra: Mena Matarazzo,
Hera Guglielmo
















Da sinistra: Michele Amodeo,
Antonio Mazzocca, Alessandra Iannone
Mirella Merino














Pier Paolo Pasolini
Rosa Mannetta
















Simone Lucciola
Illustrazione di Simone Lucciola
"Mamma Morfina"















domenica 24 maggio 2015

LA LUNA, LE STELLE, LE FOGLIE E ARES



LA TRASPARENTE INVENTIVA DI UN UNDICENNE






Sabato 16 maggio u.s. nell’Aula Magna della Scuola Primaria “Regina Margherita” della nostra città, in Piazza Garibaldi, gli alunni e i docenti delle classi IV e V hanno accolto e ospitato lo scrittore e poeta in erba Ares Guglielmo, autore dei volumetti “Voglio raccontarvi…della luna e delle stelle” (prose) e “La trasparenza delle foglie” (poesia), entrambi per i tipi di Delta 3 (Grottaminarda). L’undicenne Ares è stato anch’egli alunno del “Palazzotto” ed è lì che ha ricevuto una sorta di metaforica investitura nell’arte della scrittura creativa, grazie agli incoraggiamenti maieutici della maestra Pia Maglio, alla quale il bambino è rimasto legato da sentimenti di affetto e gratitudine.
“Il gomitolo d’oro” (fili di creatività nel fanciullo) è il titolo dell’evento formativo organizzato, in tandem con la scuola, da Diana Reppucci e Gaetano Guglielmo, genitori del fanciullo, e qui nelle vesti di direttori artistici.
Coordinatrice, la maestra Alfonsina Crocciola, che ha spezzato una lancia a favore dell’importanza della lettura e del piacere di provare ad inventare delle storie, supportati dall’entusiasmo e da una fervida immaginazione.
Ad affiancare Ares, due eccellenze della scrittura e del teatro: Marina Siniscalchi, insegnante formatrice del progetto lettura presso il V Circolo di via Scandone (Istituto Giovanni Palatucci), nonché autrice di manuali didattici di ottima efficacia, e Armando Saveriano, attore, regista, esperto di drammatizzazione e presidente fondatore della storica Associazione Culturale “Logopea”, che da ben 33 anni opera nei locali del Centro Sociale “Samantha Della Porta”, in via Morelli e Silvati.
Saveriano e Siniscalchi, forti della loro esperienza didattica con i giovanissimi, si sono proposti di intrattenerli con vivacità distribuendo stelle filanti di sketches e di umorismo, lasciando filtrare nozioni-base in un clima di giocosità amena, catturando e mantenendo desta l’attenzione, la curiosità e il divertimento dei piccoli allievi, chiamati a intervenire con letture, interviste e brevi azioni sceniche, per saggiarne le capacità, le attitudini, le inclinazioni, il grado di concentrazione e di riflessione, la disponibilità al dialogo, le risorse della fantasia, l’approccio alla drammatizzazione istintiva.
Ares ha affascinato per la sua affabile compostezza, ha impressionato per la passione autentica che manifesta nel piacere di leggere e che profonde nell’attività, bellissima e impegnativa, della scrittura, campo che richiede dedizione, tempo extrascolastico, esercizio e ricerca continui. Basta sapersi organizzare, ha spiegato ai compagni e alle insegnanti, in modo da conciliare l’hobby “serio” e l’esigenza dell’istruzione, fondamentale per assumere valori etici oltre a informazioni imprescindibili per un sapere duttile, moderno, dinamico, “reticolare”.
Così, ha raccontato le fasi del suo attaccamento a lettura e scrittura, ai progressi che di giorno in giorno compie e che hanno la loro fruttuosa ricaduta nel mondo scolastico, non solo in italiano, ma nel rendimento di tutte le materie. Scrupoloso, sincero, simpatico, ha riscosso approvazione, tanti applausi e sorrisi di ammirazione da parte di maestre e allievi. Infine si è trovato sommerso da una marea di bimbi che gli chiedevano, con occhi luccicanti, un autografo, e si proponevano di acquistare i libri, disponibili presso la Cartoleria “Punto Contabile” prospiciente l’Istituto Scolastico.
Ha soprattutto promesso ai compagni di ritornare, per regalare loro, e per donare a se stesso e ai genitori, altri momenti “magici”, altre sfavillanti ‘alchimie’, come un Harry Potter della parola e dell’immagine, del ritmo e del tono, della metafora e del metalinguaggio. Perché, naturalmente, continua a scrivere e a produrre pagine di prosa e versi, sotto la guida del suo ‘pedagogo’ Armando Saveriano e intanto tenuto d’occhio dalla brillante Marina Siniscalchi e dal suo gruppo di lettura.
Ad majora, Ares! Per astra ad astra, come Alfonsina Crocciola ha rimodulato l’antico motto latino fondato sulla paronomasia ‘aspera/astra’ (“Per aspera ad astra”, dagli illustri precedenti in Esiodo, Senofonte, Platone, Cornelio Severo, Silio Italico), durante l’incontro e prima dei saluti finali.

                                                                                                          LOGOPEA  






Ares Guglielmo
Da sinistra : Armando Saveriano,
Marina Siniscalchi, Ares Guglielmo,
 Pia Maglio
















Da sinistra : Diana Reppucci (la madre),
Ares Guglielmo


mercoledì 20 maggio 2015

DIONISIACO E APOLLINEO NELL’ABBANDONO DI WANDA MARASCO



UNA RICOSTRUZIONE STORICO BIOGRAFICA DI ADERENZA PASSIONALE, DIVAMPANTE, INQUIETA






Una parola intrisa di fluido magmatico per la ricostruzione epocale fedele, suggestiva, passionale, lirico-epica,  funziona come macchina del tempo, in grado di trasportare il pellegrino delle pagine in un passato riproposto con chiave filmica, nei più minuti particolari, dando vita ad un affresco movimentato, stupefacente e condivisibile, dove odori, colori, suoni, interior coscienziale strabiliano dalla prima pagina all’ultima, conferendo all’autrice, Wanda Marasco, in lizza per l’attribuzione del Premio Strega di quest’anno, la palma di una primazía aurorale assoluta, oltre le altezze e i meriti puramente letterari, al di là di ogni effimera e accesa competizione. 
La scrittura, ritmata fuori del virtuosismo ma caricata di vis votiva, sostenuta dall’innervatura poetica e dal propellente drammaturgico di una teatralità-humus scandita dalle penombre e dalle abbacinazioni dell’anima, dalle dissipatezze e dagli splendori, effonde una lealtà intellettuale di fronte alla quale non si può restare indifferenti; si può parlare di convergenza tra lucida intelligenza e coerenza demiurgico-registica e tra segnatura logo-etica affabulatoria (‘geniale’ al punto da evocare il fattore ‘diabolico’, demònico nell’accezione greca classica), in una partitura sconfinata di sensazioni, morsi ossessivi, ghigni mistèrici e metafisici, lardellature di aspettative e di laceranti disillusioni, incursioni nell’ottica della visionarietà estesa all’anabiosi della mania e all’eros delirante in sequenze crude prive del pregiudizio perbenistico dalla vista corta e sorniona.
Il respiro è quello della saga, che trasposta sul grande schermo di una volta, si definiva colossal.
La maestria della Marasco nella contrappuntistica dei passaggi psicologici alterna le vulnerabilità, i furori, le scaltrezze e l’orgoglio, l’ardita sfrontatezza, le spine ironiche, le macule di colpa e i rovi del malessere di un protagonista che dialoga col suo doppio (Antonio -Totonno- Mancini, ribattezzato ‘Peppino’, il ‘Peppino profondo’, “ombra e inganno a me di me medesimo”) in una plausibilità impressionante, in franchi empiti pulsionali, in affondi e strazi, in vaneggiamenti e lamentazioni o in rimuginii non esenti da trasfigurata dignità, mentre intorno palpita senza linee di divisione l’affresco di un mondo concitato, frastornante, sporco, impietoso, corrotto, patetico, eppure vero, credibilissimo, riscattato da figure che masticano all’occorrenza l’atavica placenta dell’egotismo altruistico e di una pur ruvida o episodica solidarietà (Mastro Ciccio –Michelagnolo–, Giuseppe Bes e Giuseppina Baratta, Marittella, suor Maria Egiziaca, Antonio Mancini, Don Rafele, Stanislao Lista, Domenico Morelli, “ ‘o masculone/’o sturcio ‘e femmena” durante la patita trasferta a Sant’Agata per consegnare il busto a Verdi, Luigi Fabron, Ernest Meissonier). L’impostazione del romanzo riserva soluzioni figurative e tonali di assoluta novità, prorompe in un linguaggio che accozza la lingua alle trafitture piccanti, mordaci e bramose del dialetto in una perfezione evocativa capace di reificare vitalità feroce e ineffabile attrait. La Marasco è Fo nell’ardore protoromantico, nell’esatto valore della sfera sensibile, nelle scorticature delle provocazioni, nelle sottolineature (d’esemplare lucentezza narrativa) delle malizie apprese, delle paure funeste e nelle audacie ruspanti e talora formidabilmente vincenti nell’apofonia del supponibile, nell’incertezza della verificabilità, pur nei fumi illusorî e avventati di qualunque vaticinio scaturito dall’entusiasmo e dal desiderio. La fusione elegante, senza soluzione di continuità, tra lingua e dialetto (non sottovalutando gli inserti in francese), dà origine a un parallelo ricco, curioso, interessante, inestimabile del ‘grammelot’, qui penetrabile, accessibile e patente, di lampante e gustoso estro, di sublime effetto. Le inflessioni del parlato sono naturali e bilanciate nelle esuberanze e nei ritegni, nella verità delle insofferenze e nell’intimismo del rimbalzo delle ombre (tenerezza e violenza, voluttà e calcolo, fratellanza e dissidio, chiacchiericcio ed elucubrazioni, scrupolo e avventatezza, delitto e pentimento).
La vita, le vicende, i percorsi artistici, la malattia, gli amori di Vincenzo Gemito (Mathilde Duffaud, Nannina Cutolo), che secondo Di Giacomo “era stato Crono” nello scaraventare l’infanta Peppinella, pupa di pochi mesi, ‘nfaccia ‘o muro, mentre Cangiullo e Scarfoglio citavano Frankenstein e il Golem, attore tragicomico nel profilo che ne fa il Virnicchi a Villa Fleurent (Chisciotto, Amleto, Sigismondo, Orlando), sono punteggiati in un rinvío mirabile di percetti contraddittorii, di dimensioni temporali oscillanti e quindi slittanti nell’atemporalità del meccanismo narrativo e dello statuto dell’autrice; la Marasco ha lavorato di fino sulla scottante umanità dei percorsi di identità e permanenza nell’impermanente, quasi reinventando un’epopea e gettando le basi per il mito, servendo ai suoi lettori abituali e nuovi su vassoi di cimentante impegno la presenza del diverso, dell’anomico creativo, del multiplo affascinante e instabile, imprevedibile ed errante anche durante i quasi vent’anni d’autosegregazione. Gemito (nomen omen per errore di trascrizione), “criaturo ingrato e presuntuoso”, ‘scigna e animale del diluvio’, ‘cuore di bestia’, ‘pazzo per autorizzazione dello spirito’, è genio malinconico, furibondo e sfavillante scaturito dall’abbandono, termine fulcro e spunto di infinite considerazioni, di molteplici rimandi; è l’abbandono stabilito dal fato, e che in varie circostanze si ripresenterà a dannare e a risarcire, che rende ‘Vicienzo’ padrone del suo ruolo drammatico, scandito dal tuono senza congedo di un’esistenza turbolenta e certamente magnifica, da tragicommedia inevitabile come il verso della ‘ciucciuvettola’ e dell’upupa, come le ali ipnotiche di una effimera sopra una foglia cedua. È l’abbandono che preannuncia il travaglio di cuore e coscienza esposti alla protervia del destino, anch’essi su una ruota girevole, che riserva sempre lividi, ferite, perdizioni, detonazioni di folli speranze e capitomboli di sorte volta a indulgente, inaspettato favore. È l’abbandono che largisce, in qualità di supernaturale indennizzo, l’ingegno, infallibile e scapricciato, benché non apotropaico. È l’abbandono che consente l’esplorazione formativa del chaos; che crea i presupposti ambigui per episodi fermamente significativi e per saporiti aneddoti leggendari: sia nella bottega del Caggiano sia in quella del Maestro Stanislao Lista con le due sorelle, zite e bizzoche; sotto le volte del Convento di Sant’Andrea, nell’atmosfera torrida e sensuale di Villa Capezzuto; nella Parigi trasformata dai ‘grands travaux’ progettati dal barone Haussmann nel Secondo Impero; nelle cavalcate tra i boschi di Saint-Germain e Morly col Meissonier che impartisce lezioni di politica, letteratura ed arte; finanche nel laboratorio per lo scenario della festa annuale di raccolta fondi, organizzata al manicomio di villa Fleurent; è l’abbandono che innalza a fama e precipita nei capovolgimenti della concertazione splendida e bizzarra del simbolo dell’avventura umana, con tutte le sregolatezze, le ostinazioni, le mosse false, i tradimenti subíti o perpetrati, le menzogne, le paranoie, l’incerto quotidiano, l’impossibilità di risanare il tragitto infelice e maldestro, o di rimarginare quello sognante e sprecato, le accensioni dello spirito e lo spegnimento della sete.
E qual è l’abbandono che ha sprizzato nel mondo il talento, il fiammante poliedro e il saturnale soffio di Egeria che meravigliosamente si disfrena nel circuito sanguigno di Wanda Marasco?
Con una simile opera compatta, turgida, eclatante, incomparabile per sortilegio estetico e per rifrazione eternale, abitata da folla di personaggi che marchiano anche quando appaiono e scompaiono, anche quando hanno identità e incidenza ‘minore’, con siffatta cattedrale (di dimensioni tali da provocare rapita soggezione) che impolvera, immiserisce e castiga ogni velleità di contendenza, Wanda Marasco, a nostro tutt’altro che sprovveduto avviso, è già adesso trionfatrice morale di qualsivoglia competizione, confronto o paragone.
Condannarsi a non entrare nelle giornate estatiche/traumatiche e nelle notti acide di Vincenzo ‘Gemito’, nei suoi sconcertanti monologhi, nei grovigli di una psiche sulla graticola del bilancio finale, nelle alterne fasi ‘r’ ‘o sciuscio’ inesplicabile, nella carnalità esultante e piagata di questo artista richiamato in vita da un’artista d’altra gemellare arte, è precludersi un piacere intenso e doloroso come un orgasmo difficile e appagante quant’altri mai.

                                                                                                 ARMANDO SAVERIANO



WANDA MARASCO – IL GENIO DELL’ABBANDONO – NERI POZZA, VICENZA –  2015 – PP 352 - € 18.00




Wanda Marasco
Presentazione libro
"Il genio dell'abbandono"
venerdi 22 maggio 2015


mercoledì 13 maggio 2015

GIUSEPPE VETROMILE SCHIUDE LE FINESTRE DEL SUO MONDO PIÚ INTIMO E VERO



Il disvelamento raccorda segmenti temporali 

in un tutt’uno inscalfibile e compatto






Ecco un libretto che nel formato, nella grafica di copertina, imprime forte l’impatto con la memoria piacevole di certe pubblicazioni del passato, dalla grafica essenziale, al limite dello spartano, e perciò assai efficace. Vetromile ne è fuor di dubbio l’ideatore; del resto questo “Congiunzioni e Rimarginature” rientra nella collana, dal poeta napoletano concepita e diretta, “Parentesi Quadra”, a cui appartiene, pur con veste tipografica difforme (dimensioni verticali e involucro illustrato con l’olio su tavola “Vite Parallele” della pittrice Eliana Petrizzi), l’antologia “Ifigenia siamo noi”. Le dimensioni rettangolari si rivelano perfette per il verso lungo di Vetromile, e la qualità della carta, la grammatura, il riposante tono vaniglia lontano dall’indifendibile bianco accecante (lucido e in stampa digitale) di “Ifigenia siamo noi” o di “Vivere balenando in burrasca” di Gennaro Iannarone (per la Collana di poesia e prosa “Giallo Tulipano” – Scuderi Editrice) depongono a favore di un invito alla lettura in una comoda poltrona, con una tazza di the a conforto di una primavera irpina ancora incerta nella temperatura media tradizionale.
Giuseppe Vetromile è una delle personalità rilevanti nella sfera poetica del sud. L’intensificazione della sua presenza letteraria di qualità non subisce arresto o flessioni, poiché tende a una coscienza vieppiù profonda di se stesso nell’attimo presente, sulla macchina del tempo che esplora l’ieri, nella proiezione possibile dell’avvenire. Senso della realtà e senso del possibile sono come già per Musil i tasti esistenziali di questo poeta che si moltiplica nella consapevolezza dell’esperienza e della meditazione, frequentemente, come in tal caso qui, sul cimentante banco dei ricordi, delle rievocazioni a imbuto di un tempo lasciato, ma non superato, che conserva indissolubili gangli emotivi, decisivi per l’evoluzione in progress di un verso che tende all’esposizione della ‘sofìa’ senza limiti arbitrari. L’ingegno del poeta si configura in una ‘accumulatio’ con effetti linguistici di pregevole ‘corpus’, per distillarsi nel momento contrario che astringe, modera, stonda, senza però compromettere quella caratteristica quantità di riferimenti, che incanalano i versi in un decorso flessibilissimo, liquido, acquerellato. È interessante quanto il fervore e l’impianto idealistico possano sollevare un lembo del loro ordine sistèmico per lasciare intravedere il disincanto, col dislivello fra tristezza e amaritudine. Maestro del gioco, il poeta non si lascia sfuggire di mano un esercizio di mimesi complementare alla inesorabile drammatizzazione della sua e nostra ‘commedia umana’.
La sua Weltanschauung si volge alla considerazione degli affetti familiari ‘centrali’ con le neuronali connessioni e tutti i sottintesi che continuano a influenzare l’oggi nel pubblico e nel privato. Con sincerità e perspicacia espositiva riesce in tutta la sua opera poetica (19 libri!) a dar risalto esplorativo e criterio di apprezzamento al fondamentale concetto di “essere”: essere nel mondo/essere mondo. E citando sottovoce gli aristotelici, i platonici e quanti dopo son venuti con le loro dissenzienti investigazioni, egli dà risalto alla realtà esperienziale, all’idea, oggetto del pensiero, ai valori che fanno la coscienza personale e determinano l’azione.
La binaria consapevolezza, artistica e umana, le precise corrispondenze linguistico-metaforiche, la vis ispiratrice di angoscia, solitudine, amore, morte, speranza e riscatto, confluiscono in una poesia dalle sempre nuove possibilità di indagine e di meditazione. Soprattutto, e qui più che altrove, il poeta di Sant’Anastasia governa il tempo come lo avverte e come lo affronta e vive, annullando i comparti dell’allora e dell’adesso, affermando la sua individualità personale, che in buona fede non bara mai ( o non ce ne si accorge ) con la manipolazione mnestica. Non è lecito né ci compete misurarci con il grado di affidabilità dei criteri prismici di verità in quel che ci narra e svela: è la verità che si appropria di lui per affiorare e permettergli di divulgarla, perché storie e personaggi che reclamano spazio non vengano zittiti e compressi o addirittura confusi e smarriti nel ginepraio delle dimenticanze.
E se la verità è inevitabilmente soggettiva, se non si identifica, in misura d’assoluto, in nessun uomo, poeta, artista o filosofo, allora non ci resta altro che rispettarla e porci in attento, umile ascolto, credendo nella parola, senza pretendere di abbracciarla e magari metabolizzarla con un solo sguardo o con una sola lettura.
E appellandosi quindi al contegno e alla virtù dell’anima, Giuseppe Vetromile rintraccia e dipana il nastro rosso che lo collega a padre e madre, a figli e a discendenti: in ciò il legame delle ‘congiunzioni’, il rimettaggio dei fili dell’ordíto nelle maglie dei licci, con la cicatrizzazione giusta, dovuta e onorevole dei travagli, dei dubbi, delle conquiste, delle pene e delle conciliazioni di vite assolte nei contrasti di imprevedibili correnti.
Luciano Anceschi, da Bologna, all’eccellente Toti Scialoja scriveva un aneddoto illuminante: “
Fidiamoci della memoria. Il ricordo dei nostri primi incontri profonda in anni lontani; ma è sempre connesso a qualche sorpresa o invenzione o meraviglia. Ho nitida alla mente l’impressione di una tua mostra, a Milano, al Milione, in cui tu mi mostravi certe segretissime risorse liriche della luce che si nascondevano tra colori oscuri d’angoscia, e che bisognava scoprire con accorgimenti ricchi di inviti e di significati formali. Ormai da molti anni in un certo modo noi lavoriamo insieme in un campo difficile da coltivare, devastato dall’improvvisazione apparentemente colta, dalla presunzione arrogante, e adesso anche minacciato dal tentativo insensato di restauro, di melenso recupero di un modo arcaico dell’idea di ‘bellezza’.”
Discorso che può benissimo applicarsi a Pino Vetromile: benché non sia egli pittore, la poesia che produce, la poesia che per suo tramite ‘avviene’, ‘si compie’, aduna i colori, annovera il respiro profondo di un quadro nel quadro; l’esperienza individuale s’irraggia nel collettivo e una semplice nuance s’ispessisce di significati dove il pathos e l’acutezza dell’intelligenza si bilanciano nello stesso empito di vitalità, sul medesimo territorio.
Non è pittore, Vetromile, se non nelle suggestioni, nelle macerazioni, nelle trasparenze, nei rapimenti e nella densa sinfonìa sinestetica, appassionata ed eclettica della parola; ma pittrice in accezione tradizionale è stata la madre, per vocazione, forse, o per quel che Nietzsche diceva di se stesso a proposito della scrittura: per liberarsi dai suoi pensieri; o per cantare con voce differente la realtà che la espropriava e affermare invece una tessitura visuale, onde sognare nessun altro sogno che non il suo, con intatte le proprie, personali norme di interpretazione. 
Il poeta costantemente devolve con amorevole attenzione questo suo pathos, che è fede totale nell’emozione, ai viandanti della vita, esponenti lividi e contusi della stessa frammentata vita imperfetta, in una configurazione verbale che tocca la sensibilità linguistica in quel punto nodale condiviso da autore e lettore. Moderno e classicista al contempo, si concentra sulle relazioni umane con sorprendenti metafore di robusta tensione morale e metafisica, tra simbolismo e espressionismo come il Tomas Tranströmer del secondo Novecento, senza distanziarsi troppo da una chiarezza espressiva poundiana. 
“La mano già sulla valigia mi dicesti dunque/ io parto/ ma tu non seguirmi e/ non cospargere di petali la scia d’amore che ti lascio/ e neppure rendimi le parole che ti ho fatto/ a misura del tuo corpo/ figlio// perché un giorno tu possa convertirle in inchiostro indelebile/ sulla tua pelle pellegrina// Allora non ti vidi più/ padre/ come risucchiato dal cielo/ o confuso nella terra/ sparito dalla stanza// e il tempo è un’invenzione per crederti ancora qui/ seduto sulla tua poltrona preferita…”
Il clima dell’abbandono causa disappunto, incredulità, strappo, è l’anticamera di un dolore anticipato, annunciato, che supplizia eppure funge da propellente per la futura scrittura dove la malinconia senza imbarazzo coltiverà la forma cantabile di una latenza, in cui il tempo manipolato ha il privilegio del ritorno a ben più di un simulacro.
“ Mi dicevi o volevi dirmi / io torno ogni sera ai tuoi occhi/ ma tu non vedi che lembi trasparenti/ che oscillano alla frequenza dei miei/ polsi // E poi non ti accorgi del clarino/ lí in un angolo suona da solo/ per inerzia / dal mio fiato liquefatto/ escono note e sillabe di ricordi// Frastuono fu la mia vita/ tu non t’accorgi più di me che quando/ s’alza la luna/ di notte/ a illividire le mie note di padre// Tu segui ora una scia luminosa/ al cospetto degli dei/ di polvere è ormai il tuo clarino/ e il ‘la’ è perso in mille clangori/ e ghirigori// La vita è un sogno mi pare che dicesti/ o tu stesso sogno della mia vita” 
Confronto di ombre ed echi tangibili con una ficcante dinamica di montaggio che preserva qualche ambiguità, mentre il pensiero si lascia precedere dall’armonia delle immagini che forano il cuore, disertano le spoglie del ricordo per reificarsi in un annichilimento del sospetto di reiezione genitoriale; per un attimo, per un lampo; ma qui la metafora della mano sulla valigia prefigura l’allontanamento dalla vita, non certo una fuga dalla famiglia. E il dialogo si dipana a posteriori grazie al simbolo del clarino, la cui ‘voce’ è moto dell’animo paterno e sublima lo sgomento e il malessere. Orfeo effonde la sua arte e non si volge indietro, perché ha davanti a sé il ritornante che con la poesia, nella poesia, ha immortalato. Il poeta non ammette altro spettro intorno a sé che quello dell’amore, ‘parola enorme’ e ‘roboante’. Eppure albero, vela, timone e rotta, nel viaggio fluttuante oltre ogni fraintendimento e avverso ogni convulso pessimismo. 
Alla madre sordomuta dedica elegie di chiara dolcezza, tutte a comporre un bouquet di sottili trine che non celano o mitigano il dramma, ma ossigenano la fierezza della franca umiltà -e non paia ossimoro-, corroborano
le sponde romantiche della vicenda, spirando dentro e fuori come brezza gentile. Dopo la splendente dedica introduttiva (“Quando a mia madre chiesero perché/lei rispose che fu colpa del vento/e che cadde giù sulla terra/strappata dal volo di un angelo//ora attende con impazienza/ quelle ali/per risalire in paradiso”) ecco che strepitosamente Vetromile si “inleia” e svela, quasi con la suggestione miracolosa d’una formula magica: “ Sono l’ultima fanciulla di Ottaviano e prendo il sole/ tra le braccia grezze scivolando sull’ala del vento/ come una farfalla rudimentale/ io l’antica stazza di prorompente ma fugace/ beltà/ io il sorriso la carne lo scoglio di piazza vittoria/ e santa lucia che mi tiene in barca/ io la possente persistente contro tutte le mode del tempo// sono rimasta l’unica fanciulla che guarda in alto/ sulle pareti mio padre e mia madre severi e torvi/ sono un altro mondo mai vissuto/ ma raccontano a segni e a smorfie di volti/ i miei raccapriccianti amati/ i miei dolorosi fratelli// sono rimasta/ e qui vorrei abbandonarmi sul terrazzo sgretolato/ all’ultimo sole d’agosto/ senza più il frastuono del mare/ né l’ala del vento che mi accarezza/ questa pelle d’elefante/ io sento ora l’armonia degli angeli/ verranno a prendermi di notte/ mentre tremo ancora sulle labbra/ la parola di Dio che non so/ che non sento/ che non vedo/ ma respiro come l’aria/ necessariamente”
La madre lo ha dato alla luce, l’ha messo al mondo; il figlio ricambia, donandole la parola, il senso colmo e cosciente di suono e significato. Il poeta la descrive in vari momenti e fotogrammi, che per tenerezza e genialità
soverchiano il foglio, ci sopraffanno. Fanciulla, donna, anziana: le tre età cruciali che compongono un’unica, lunga poesia, o forse un solo racconto lirico, una costellazione di atti, desideri, pensieri, paure, sprazzi di infinito ‘sub specie narrationis’. Sempre accompagna questa madre la ‘passio’, che è consegna di dolore, ma anche esercizio morale di dovere e dedizione all’esistere, pur in un limbo privato, che non è monade, che apre spiragli, spalanca balconi, ha porte ben oliate. È, questa madre, protagonista più alta che non l’Ifigenia a cui si aggrappano o aderiscono poetesse che mai hanno conosciuto la segregazione, l’isolamento, gli effetti sociali del pregiudizio, che mai hanno subìto l’immolazione coatta o scelta affinché venti propizi sospingessero ‘avanti’ le loro amate creature, un ideale, un progetto politico. Questa madre ha un ‘che’ di Andromaca, è l’acquaforte in versi di un’Alcesti che non vuole sopravvivere al marito, e che, all’inopponibile dipartita del compagno, ne sorveglia lo sboccio e il rigoglio del seme. Alleva i frutti d’amore, vincendo la sfida istante per istante.
Ed eccola ragazza, intenta a sgranocchiare pensieri e caldamente riconoscibile a se stessa, in una planitudine che attrae e sconcerta come i suoi occhi spalancati su un mondo da cui Dio ha preso le distanze, come distanti da lei noi sentiamo i genitori ‘severi e torvi’, un ‘altro mondo mai vissuto ma raccontato a segni e a smorfie di volti’.
Questa ragazza è sbalzata nella pietra mitologica con una felicità di tocco descrittivo che si assicura la commozione (in accezione latina) della posterità: il clima è placido e straniante, in parte invece riserva smottamenti nella tragicità dell’impercettibile; dice di un’emarginazione terribile e quieta, che turba più coloro che la incontrano e la amano; e l’inleiamento/inleiazione del figlio è esplicito/a senza spettacolo empatico nella poesia che segue (“Rimarginatura finale”), dove egli le facilita la pace, la riconcilia con i difficili debiti del passato nelle carceri casalinghe e fuori nella brughiera gerbida di un altrove insensibile, espropriante,  estromissorio (il tema della casa è costantemente, per Pino Vetromile, rifugio e galera, mentre l’esterno è sovente plaga di fatale, ottusa incomunicabilità, quindi l’altra faccia della frustrazione bifronte). E ci lascia l’immagine ancillare di una custode invecchiata presso la finestra, con un piccolo forziere in grembo, che a pochi (forse a nessuno oltre che a lui) è dato schiudere per lasciarne spillare la luce.

                                                                                              ARMANDO SAVERIANO



GIUSEPPE VETROMILE – CONGIUNZIONI E RIMARGINATURE – SCUDERI ED. 2015 – PP. 64 – EURO 10.00



IL SUONATORE DI CLARINO

Dalle ombre del tempo, furtivo,
un delicato profumo di note
pervade spazi grevi di ricordi.
lieve melodia nel cuore
sulle onde di malinconie lontane,
dolce musica di padre:
trascinavi tristezze 
fuori dal mondo,
ammorbidivi dolori.
La tua vita: un’estasi
raminga. Cantavi
la gioia dei figli
e per te, e per Dio, suonatore
scalzo nell’anima,
innalzavi nenie al paradiso.
Mai più sciolto 
nel ghiaccio della morte,
levita ancora
l’ultimo tuo respiro
leggero nel cielo: un ànsito
tra mille note di clarino

*

SORRIDE ANCORA MIA MADRE

Mia madre seduta accanto a questo scorcio di primavera
di tanto in tanto sbircia dalla finestra
tra un sole e l’altro
il mondo che fu
il mondo che le appartenne
e un mare lontanissimo dai suoi occhi stanchi
Lei ora è come l’autoritratto appeso al muro
consumato ma ancora in bilico
tra questa e l’altra verità
tra la tela ad olio screpolata
e quest’ombra sfrangiata e caracollante
da una stanza all’altra della reggia ottavianese
dove alligna non potendo più oltrepassare
alcuna soglia
alcun confine
Lei è tutto il suo mondo
è fatta di carne ed ossa e d’amore ed anche di quadri suoi
tutti intorno alle pareti
tutti intorno alla sua vita
che se ne va piano piano dolcemente
in asintotico infinito silenzio
che nessuno sa e nessuno vede
che lei è ancora lì nella torre
e saluta laggiù il cavaliere bianco
il suo amore perduto a Napoli
tanti secoli prima eppure è oggi
è ancora oggi nonostante le crepe
e le voragini nel cuore
l’alito del tempo amaro sulla sua pelle
raggrinzita
Sorride ancora mia madre e non sa quanti giorni
sono davanti a lei
non vuol sapere nulla di tutto questo
lei va
senza andare
perché ogni suo viaggio è ormai inutile
e rimane qui accanto alla finestra
a sorridere al mondo che passa
e ai suoi occhi pare buono
tutto il tempo che le resta

*

DENTRO CASA

Dentro casa non ho l’altezza delle pareti
mi appiattisco dunque sul pavimento per sentire meglio
il suono della terra proveniente dall’altra parte
della mattonella
io così evito il blablà dei condòmini tutti
reclusi nei metriquadri a loro spettanti
come unità immobiliare unica fede
del loro ancorarsi qui sulla costruzione
palazzo massimo con comodità ad ufo
mentre si stacca remota un’ala trasparente
nel consunto volo d’angoscia slargato
sui millenari perché
(ed io sono e dove sono e dove vado
ma perché)
Sciama lontano uno sfilaccio d’anima
e così noi un piede dentro la stanza
una mano fuori tesa
verso l’oltre

*

GUIDO IL MIO CALESSE

Guido il mio calesse verso la fortuna
andando di sbieco
evitando i fossi
e quella parola enorme – amore – 
ma non passo oltre
e ristagno
qui
tra mille cose inutili
e quella parola roboante – amore – 
irraggiungibile
mi sganghera il futuro
mi appiattisce sul selciato
mi riga il solco di sangue
a più non posso

GIUSEPPE VETROMILE




Giuseppe Vetromile


domenica 3 maggio 2015

VERSIPELLE 17



La circolarità dell’andare tra Giustizia e Stupore






Transito di meraviglia e sorpresa, la Poesia, pur nelle inevitabili zolle di opacità, disillusione, scoramento, collera, abbandono, rimette in sesto l’innalzamento dello spirito, si ramifica, diventa portatrice di una ancestrale idealità che depura, sruggina i cancelli accosti della speranza verso verità e giustizia. La giustizia, in senso plenario, è onere e onore per la Musa, si storicizza con autorevolezza nel consenso e nel dissenso, mappa un itinerario esistenziale. Così nella raccolta di Gennaro Iannarone “Vivere balenando in burrasca”, titolo cardarelliano che nel sottotesto già evoca/invoca etica e morale: 20 poesie nel solco di un’esplorazione dell’anima lungo gli scaffali del ricordo. Che siano liriche o indulgano ad accenti prosastici, esse dispiegano il loro spartito e potrebbero essere considerate un epistolario a se stesso, agli estimatori di un ardore spirituale, che negli anni della maturità sopravvive fecondo in Iannarone, reso come un ragazzo, sveglio, integerrimo eppur benevolo, dalle matite del M° Giovanni Spiniello sulla copertina del volumetto edito da Scuderi. La lettura delle poesie si avvarrà delle voci collaudate di Armando Saveriano e di Davide Cuorvo, e di quella calda, convincente, di Oscar Luca D’Amore, interprete pirandelliano di cospicuo vigore. Le dita sorprendenti di Hera Guglielmo accompagneranno al piano l’energia vitale dei testi, mentre un coro di poetesse amiche ed estimatrici del bello fornirà l’apporto intellettuale che sempre fa capolino negli incontri de IL VERSIPELLE. Si tratta di Rosa Di Zeo, Agostina Spagnuolo, Monia Gaita, Paola De Lorenzo Ronca, e, non ultima, Antonietta Gnerre, pupilla di Davide Rondoni.
Depurata l’Orestea dei versi troppo interiori e piagniloquenti di Pacilio e Panìco, poco addentro alla scrittura teatrale, il gruppo di attori (Mena Matarazzo, Michele Amodeo, Antonio Mazzocca, Davide Cuorvo, Hera Guglielmo, Alessandra Iannone) si esibirà davanti ad un pubblico che non manca di apprezzare la radice classica ed il nerbo dell’argomento oseremmo dire ‘chirurgico’.
Anche il mito conosce e rivendica una circolarità di fierezza e forza memorabili, dove crudeltà e fato, pietas e commozione si inseguono per raggiungere un compimento, come combustione e levitazione della parola nel coraggio del canto, nel fenomeno cardiocerebrale di passio e ratio.

                                                                                                                         LOGOPEA  





Agostina Spagnuolo
Antonietta Gnerre
















Armando Saveriano
Davide Cuorvo

















Gennaro Iannarone
Hera Guglielmo


















Mena Matarazzo
Monia Gaita

















Oscar Luca D'Amore
Paola De Lorenzo Ronca
















Rosa Di Zeo