giovedì 22 dicembre 2016

GABRIELLA, I TUOI DARDI NEL MONDO


Lamelle di memoria


















Con il lascito dell’opera prospera, penetrativa, lancinante (le foto sonore, la speleologia dei racconti nell’interior mitologico delle vene, le sierose poesie, aperte, profonde come rose bianche), Gabriella Maleti ci consegna un respiro di durata perenne, il colloquio cronocromatico che si propaga nell’anima dell’ineffabile topos/logos; si rivela, si conferma una testimone del rigoglioso territorio della scrittura, dell’immagine impressiva, indelebile. Suo, il sacerdozio del linguaggio più sofferto, autentico, comunicativo tra Novecento e Terzo Millennio. La tracciabilità dell’arte è la tracciabilità del provato grado senziente che racchiude/enumera ogni quid nella natura amata, sorpresa in incessabili scatti; nomina l’inspiegabile, l’inconoscibile del reale dal senso insensato che sdrucciola, s’intuisce per un lampo, non s’afferra, senza attenuare la spia del dramma quotidiano o smobilitare/deviare la levatura del proprio diritto alla franca spregiudicatezza sotto firmamenti taciturni/loquaci, distanti/vicini, priva di miccia, di polveriera, eppure in un deflagrare chiaro, netto, di rispetto gentile; il salvacondotto dell’autonomia di un pensiero liscio, frusciante come trottola emotiva, nunzia del ripetuto loop temporale, lampo alla curvatura dell’appartenenza a sorgenti imprescindibili, nella crescente consapevolezza degli anni, negli impeti pulsionali, negli accampamenti ai focherelli della meditazione quieta, dolorosa, confortevole; lasciapassare strappato alla vita per conquista appuntata su ecchimosi, su ferenti tramonti, albe-maree, crepuscoli leggeri, sguardi febbrili o impietriti, diario della vista curiosa, diligente, sapiente finestra aperta o riaccostata. Gli ultimi due libri in particolare, “Prima o poi” (2014), “Vecchi corpi” (2015), di una bellezza che coagula contorni di luce ed eclissi, squarciata stupefazione lungo rive di sentimenti metamorfici, tanto nella certezza quanto nello smeriglio del dubbio, imprimono, tramati di malinconica grazia, di spasmodica verità priva della minima reticenza, quella pervasività indispensabile, volitiva, convinta, paziente, di uno spirito che si libra sopra tutti i fronti intimi/pubblici, uno spirito dalla specificità numinosa come una spettacolare concrezione iridescente; uno spirito bello, audace, concreto/terragno/celeste, come metallo nobile tra firmamento e sangue. Recensita con brillante entusiasmo da Mario Luzi, Roberto Baruffini, Elio Pecora, Luigi Baldacci, perno dell’area di Broca, ha magnetizzato l’attenzione critica, i favori nel  congruo nucleo fruente dei lettori in prosa (Morta Famiglia -1991, Due Racconti -1992, Amari Asili -1995), in poesia (Famiglia contadina 1977, Il cerchio impopolare 1980, Madre padre 1981, Il viaggio 1986, La flotta aerea 1986, Memoria 1989, Fotografia 1999, Nursia 1999, Parola e silenzio 2004), nelle realizzazioni filmiche (Il fotografo 1993, Venezia 1993, Acqua, Caos, Eros’amore 1995-1996, Perché, Notte lunare, Deserto 1996, Images 1999, Sidog 2002, Uguali e diversi 2003, La cugina Iris 2003, Elettra 2004, La Guerra di Peter, Legati 2004).
Nel non pretendere, nel non aspettarsi di tirar dentro la goccia d’ambra che traspira istanza creativa il lettore potenziale, la parola-visione di Maleti, peculiare, sovente unica, malgré soi coinvolge in un progressivo avvitamento senza rendere succubi della pur patente commozione. Anche questa la grandezza. I passaggi di un lunghissimo viaggio –accidentato e meraviglioso– sul predellino di scossoni, traumi, obiettivi da sellare nonostante le traviature, i tradimenti esistenziali, gli smottamenti, i timori, i rimpianti, hanno conservato intatta la capacità del disvelamento leale, arricchito ad ogni sosta nell’osservatorio entusiasta/dolente/riflessivo, per cui leggere/rileggere è una piccola eruzione di significati che hanno in sé l’antidoto mistico ad ogni ipotesi di scadimento o di appanno: gli strumenti espressivi si rivitalizzano in questa lingua pensante, che non si risparmia, che non si estenua nell’ammissione, nella confidenza, nella ricezione-proiezione di un orizzonte che solo la sensibilità percossa e mai mortificata sa allargare, intensificare, arcobalenizzare o rendere, nel chiaro-scuro, sacrale, mentre scorre l’imprevedibilità del vissuto tragico, promettente, accondiscendente, solatìo-livido, lustrale, sismico…; dal piacere breve e brujo, stregone-stregante-stregato, dagli istanti irripetibili/incollocabili/sguiscianti, al ricordo inciso nei fuochi, alla sofferenza quando purtroppo si fa non-luogo/novunque (tempospazio), eppure induce in virtù d’un qualche suo germe indomabile, persistente, a non dimissionare, a non rinunciare alla propria possibilità nel truce avvento del ritorno al buio. Che non è fine, che non è sconfitta, di fronte a un linguaggio tanto umano.

                                                                                                  ARMANDO SAVERIANO




Da “VECCHI CORPI”

Ridammi la voce che bascula, prima chiara e poi
spenta, come la voce del tuono che s’allontana e
s’avvicina, fa paura, voce dei cieli, dell’impossibile
scala che è corta, ancora , e tu racconti atti e impressioni
vaghe e però ben piantate, come fossi tu albero
nella nebbia della tua casa, dei tuoi diporti, delle
flanelle dei tuoi abiti invernali, un po’ rossa sulle gote
che si animano nella tua scienza muta, rossa e pallida,
senza ritorno, ma ancora stretta tra le unghie che stringono,
bianche, pulite, come le lenzuola tese nel cortile, vicine

*

Siamo qua tu ed io.
La macchina fotografica pesa. Non so
che fare. Chiederti di guardare l’obiettivo?
Chi mi dà il coraggio? Una fotografia per
dirmi poi come sei, come eri.
Vuoi farla tu a me? Io che ti osservo e
guardi altro. Io che attendo, ma anche tu lo fai.
Che guardi? L’intorno? Che odi? Il rumore dei
passi, di qualche voce? Di una voce che ti dice:
“Alzati, scosta il lenzuolo, scendi con le tue gambe belle,
quelle che facevano ombra all’erba, ai fiori.”

*

Dal letto mi allunghi una mano. La tengo così, come terrei
quella di mia madre. Il mento ti barbella un poco. “Che fai?
Non ti metterai a piangere!” Abbassi gli occhi. “Ho paura”,
dici piano. “Paura?” “Sì, di morire”. Chini il capo sul tuo
povero seno. Che dirti? Che anch’io ho paura della morte?
Che l’aspetto come un frutto marcio che cade? E poco o
niente mi solleva da quel momento che dovrebbe essere
l’allontanamento lieto dal corpo? E invece scuote come
una siepe indefinita, lontana da ciò che vedono attorno
i miei occhi. Che posso dirti, sorella? Che pesto i piedi
e dico no al cielo, alle promiscue nubi che mi rapiranno?
Vorrei chiudere definitivamente gli occhi, ora, lasciare
il mio cane, le mie erbe, ora, con la tua mano nella mia.

**

Da PRIMA O POI

Sì, tutto è mio e rimane: i pomeriggi sul Panaro,
il viso nell’erba, la solitudine accesa,
i diverbi candidi con gli insetti.
E poi le ragnatele nel cesso della campagna,
le notti come falci e le falci lunari.
Tutto era nel buio più completo,
e anche oggi che la luce non falsifica e il buio
riporta come un negativo: è sì, tutto mio:
“Non cadere dalla montagna di neve!”,
“Attenta, i passeri nella tagliola!”,
“ Il maiale sventrato…”
Dio, che buio, e che verità. Tutto mio.
“Dove vai! Torna indietro!”
“No, no…”
Un velo steso. Nero di pioggia. Nella realtà, quante
morti?

GABRIELLA MALETI




Gabriella Maleti
Gabriella Maleti

















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