Ho vissuto i primi anni della mia
vita in un piccolo orfanotrofio di provincia, una casa modesta circondata da
prati senza fissa dimora e terreni incolti, nonostante ciò la cosa più incolta
dei dintorni era proprio quella casa. Ci abitavano, con uno spirito di
stagnante provvisorietà, oltre a me, i miei genitori e mio fratello, tutti
orfani, gli uni degli altri. I giorni trascorrevano lenti, privi di agilità,
come un vecchio maglione infeltrito quasi impresentabile, molto pesante ma incapace
di riscaldare. Il capo dell’orfanotrofio era – indiscutibilmente – mio padre,
anche perché il più capace di conservare e preservare l’assenza di rapporti fra
i vari membri del piccolo gruppo. Egli non aveva stabilito regole, perché il
solo fatto di pensarle avrebbe significato prendere in considerazione l’altro,
attribuirgli una presenza che non si riteneva possibile, o tollerabile. Alla
fine l’unica regola, appresa per esperienza e per sopravvivenza, fu quella di scomparire.
Non è facile scomparire fra tre locali angusti e un interminabile corridoio,
simbolo della casa stessa: entri e percorri un lungo cammino senza andare in
alcun posto. Cominciai a mimetizzarmi fra le poltrone, dietro una porta,
talvolta sotto al letto. Trattenendo il fiato, per non farmi sentire, più
spesso trattenendo i pensieri, prodotto pernicioso che avrebbe potuto turbare l’angusta
stabilità dell’augusto consesso. L’unica via di fuga verso l’esterno era
rappresentata dalle finestre, velate da tende, come sudari stesi su desideri in
fin di vita, dietro le quali mi veniva concesso di sostare, come un monito. Le
osservazioni del mondo esterno, fatte senza poter essere visto, accentuando una
invisibilità che piano piano mi divorava, erano spesso accompagnate da
autentiche lezioni di vita, durante le quali mi venivano additati - come mirabili
esempi - monelli senza fantasia e senza storia, ma considerati, chissà perché,
alla stregua di eroi spartiati. Ed io pensavo che se quelle nullità godevano di
sì tanto prestigio agli occhi dei miei genitori, tutta l’enormità che mi
portavo nel petto doveva essere cosa ben nefasta ed impresentabile. A
punteggiare di vivacità le giornate ci pensava spesso mio fratello, con
spaventosi sfoghi di acredine verso chi gli aveva sottratto chissà quali
immensi tesori, mi vedeva e combatteva come si fa con un usurpatore. Ma siccome
nulla vi era da usurpare – tutt’al più da restituire – il povero usurpatore si disfaceva
egli stesso, riempiendosi di nulla, nel nulla si tramutava, avviluppato in
spire di pensieri di dissolvenza nutriti a piene mani dal sedicente usurpato.
Oltre alla consegna all’inesistenza,
vi erano regole “minori” che venivano applicate con ferrea intransigenza,
corollari, ma più corone di spine, della regola della dissolvenza. Una di
queste era la regola del fuori posto, ovvero, visto che comunque, malgrado gli
sforzi congiunti degli altri abitanti dell’orfanotrofio mi ostinavo a non
scomparire, dovevo almeno sapere – essere consapevole e certo - che dovunque mi
collocassi non ero mai al posto giusto. E quindi ero perennemente o troppo
grande o troppo piccolo, quasi una Alice schizofrenica e prigioniera delle
pozioni, ero sempre troppo grande quando cercavo l’innocenza fanciullesca,
troppo piccolo quando mi sforzavo di tenere il capo dritto e muovere qualche
passo. Naturalmente questa indecisione, tenendomi occupato perennemente nel
capire di fatto che età avessi, mi distoglieva da altri interessi, infatti ero
spesso definito incapace di fare qualunque cosa, “imbranato” era forse il più
bel complimento, almeno aveva un bel suono, meglio delle occhiate cariche di
compassione, o di scherno, se attaccavo una figurina storta, o facevo un
disegno che ben poco aveva del michelangiolesco. Per lunghi anni sono stato sinceramente
stupito, del fatto che molti adulti mostrano compiaciuti i disegni dei propri
figli in tenera età, i miei venivano perlopiù classificati come scarabocchi e
gettati nel cestino della carta ancor prima che avessi avuto il modo di
cominciarli.
Comunque anche io talvolta ci mettevo
del mio ad incupire la gelida armonia che regnava nella casetta, talvolta
osavo, preso da chissà quale senso di me, alzare la voce, o addirittura ridere,
probabilmente avevo dei problemi seri davvero, anzi, a un certo punto iniziai a
immaginare un mondo nuovo, con un linguaggio “parallelo”, che gettò nella
costernazione più nera i miei conviventi. Non era proprio pensabile che la
fantasia potesse apparire coi suoi colori in un film muto ed in bianco e nero,
forse colpa di quei maledetti ed inutili libri che raramente mi capitavano fra
le mani e letteralmente respiravo a pieni polmoni, in cerca di ossigeno, chiuso
nella mia cameretta densa di gas soporiferi, e letali; forse bastava un mondo
fatto di figurine ritagliate e casette, di carta ma in cui era possibile
abitare, per riuscire ad arrivare al giorno seguente.
Viste tutte le mie malefatte, periodicamente
venivano istituite le sedute per aggiornare il processo in corso a mio carico,
le accuse erano davvero terribili, e sinceramente non sapevo come discolparmi,
finendo di sentirmi colpevole in modo pieno e totale prima ancora che il
verdetto venisse formulato, talvolta ancor prima del processo. Durante il
processo mi veniva per esempio chiesto di rendere conto di cosa stessi dicendo
quella volta che ero stato visto parlare con un amico a un angolo di niente, o
perché mi era saltato in mente di ridere mentre camminavo tornando da scuola.
Col passare degli anni notai una
spinta all’interno del petto, che si irradiava minacciosa verso i lombi e il
ventre, in sogno andai a cercare di cosa si trattava e vidi uno strano
bocciolo, come di un fiore che attenda di schiudersi. Sicuramente un altro dei
miei misfatti, e certamente da estirpare. Sfidando le divinità e la sorte, decisi
di tenermi quel piccolo segreto, lo imbalsamai e lo fasciai stretto, per
poterlo riporre in un luogo che avevo costruito, tra l’anima e la mente, una
stanzetta semplice, alla quale, nella fretta ed imperizia di costruttore
improvvisato, avevo dimenticato di fare porte e finestre.
Un assurdo giorno di primavera giunse
il giorno della fine del processo, bisognava esprimere il verdetto definitivo e
con esso la condanna. Ma considerato talmente inutile da non essere neanche
meritevole di un pensiero articolato, venni invitato a scrivere la mia condanna
da solo, sotto dettatura da dietro una parete, donandomi così l’illusione di
una certa autonomia dopo tanti anni, ma il dono era avvelenato, conteneva la
mia terribile condanna che ignaro, inesperto e in buona fede scrissi, firmai e
controfirmai con ampi svolazzi.
Così un giorno lasciai l’orfanotrofio.
Qualche volta ci torno ancora per qualche visita inamidata, ma ogni volta che
varco la soglia una cappa nera torna ad avvolgermi, le belle occasioni
scoppiano come sfere di cristallo sotto la grandine, il sale delle lacrime
torna a circolare nelle mie vene. E torna a tormentarmi l’unica parola che
avrei dovuto dire ma che sottili legami, perfidie psicologiche e tranelli
sentimentali, mi rendevano impronunciabile: “Perché?”
GIULIANO BRENNA
Pubblicato su L’area di Broca, n. 104-105 (luglio 2016 - giugno 2017): Solitudini.
Giuliano Brenna |
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