giovedì 19 aprile 2018

DAVIDE CUORVO – "LA MISURA DEL SILENZIO"



UN GIOVANE TESTIMONE DELLA SOLITUDINE DELL’IO POETICO







Un libro, anche se di poesie, è bene cominciarlo a leggerlo dall’indice. Di solito ciò che ci viene da esso, quando non è soltanto una pur utile e semplice assegnazione di un numero di pagina ad un testo corrispondente, può rivelarci qualcosa di più del consueto elenco: la fisionomia di un volto, quello del testo nella sua interezza, il profilo di un pensiero, la sintesi ragionata del percorso compiuto dall’autore.
Così nell’ultima raccolta di poesia di Davide Cuorvo, La misura del silenzio (edizione manni, 2017), l’indice è un buon punto d’osservazione, un terrapieno da cui gettare uno sguardo ricognitivo prima della lettura dei versi.
Il volume, dal titolo suggestivo – come quasi ogni titolo del resto – è composto da due sezioni entrambe contenenti venti poesie, la prima intitolata Euritmie, la seconda Decadenze, con una soglia centrale di separazione tra le due, un Entr’act: un intermezzo d’intimità filiale, collocato in una pausa in cui sembra risuonare per il rilievo della posizione e di nominazione della stessa un velo di tributo all’altra passione del nostro, quella teatrale, di cui avvolte sembra ritrovare un segno nella stessa impostazione della voce poetica, come se in essa fossero sempre vigili un’attitudine e una predisposizione al monologo su scena, così vibranti in quel “Chiedetemi” iniziale di A mio padre, la poesia-monologo dell’Entr’act, per l’appunto, in cui Cuorvo sembrerebbe rivolgersi ad un uditorio più ampio che non il singolo lettore, ad una complicità infoltita nell’ascolto e nella ricezione e alla quale sembra rivolgersi non con le parole scritte sulla pagina, quelle che il poeta affida al segno su carta (altrove scrive: “Ho voglia di carta sulle labbra / per coprire le ferite del tuo sguardo”), ma con parole pronunciate come su uno spazio scenico : “parlo di un padre / che non conosceva il figlio / parlo di un uomo / che senza figli è divenuto padre / non sono qui / per narrarvi una storia / non fu mai scritta”. La diversità del tono fa del testo un unicum nella tessitura complessiva della silloge: qui, dove si raccolgono “un’anima abbandonata” ed un compito esclusivo (“solo io, che ho dormito nel suo cuore / posso raccontarvi…”), il poeta si rivolge ad una pluralità non meglio definita, un voi che mette in confronto la singolarità poeticamente scenica della sua destinazione legittima e il luogo di un tu assiduamente frequentato nel corso degli altri testi.
Euritmie, il titolo della prima sezione, è lo stesso con cui s’intitola l’ultima poesia della seconda sezione, Decadenze. Il richiamo alla fine dell’abbrivio iniziale suggerisce l’attenzione per un senso di proporzionalità e di armonica distribuzione delle parti nella struttura del testo, che sviluppa e riavvolge la sua tensione fino al momento elegiaco dell’abbandono allo spazio della solitudine: “Dole l’anima al mancato appuntamento / senza senso, senza sogno / sulla riva di un’altra silloge / di sassi.”
In tanti versi della raccolta è come un incontro mancato con l’altro, il tu che invocato nella notte è il margine amaro del silenzio, l’occasione non restituita in forma di fiore dall’Assenza di confine: “Era d’estate quando ci provai; / saltai quel fosso, poco distante dal cuore / e giù di lì, per quella strada corsi. […] in quel confine dove un fiore / si può amare, senza un tocco”. “(Il ponte non portava a te, né il cuore)”. “Desiderai pattinare nei tuoi occhi / mentre tu chiudevi le imposte”.
Questo è un tu che è chiamato molte volte quasi a testimone della solitudine dell’io poetico, della sua impossibilità di sciogliersi realmente alla luce dell’altro: “Ed io mi crogiolo nell’attesa vana di cercarti / e darti un nome, un barlume nella sera tarda”, o si veda come in quel “Mille e mille volte ancora” di reminiscenza catulliana, a chiusura della poesia "In fondo al cuore a non cercarti", si stabilisca una relazione in termini rovesciati col poeta latino. Laddove, nel carme dei baci, risuonava con furore l’invito a Lesbia a lanciare in un entusiasmo condiviso le briglie del desiderio oltre i lacci delle convenzioni, in questi suoi versi il nostro sembra fare implodere lo straziante ossimoro dell’odi et amo di altro celeberrimo distico in un dissidio irresolubile, ma non per la prepotenza della passione, quanto piuttosto per una mancanza raggelante di convinzione: “Se solo avessi la certezza che amarti / poi bastasse”, tranne poi rivolgere più avanti, quasi a balsamo di un senso di colpa bruciante, una preghiera all’amata per aiutarlo a sciogliere un nodo di sentimenti in lui tutt’altro che inspiegabilmente intrecciati fra loro: “Ma non odiarmi, / come il vento quando ti respinge”. Con un verso di compiaciuta dichiarazione: “Ad amore appartengo”, che apre forse lo spiraglio ad una prospettiva di lettura della solitudine, vissuta in un’ambivalenza di atteggiamento stretto tra questi due versanti poetici, tra l’appartenenza al proprio immaginario e il timore di sparizione dello stesso, tra “Non ho mondo eppure appartengo: / abito l’ultima stanza del mio cuore” e “la bianca parete che nasconde i miei silenzi / agli occhi vuoti della morte”.
Ma la misura del silenzio è anche un fondamentale euritmico della scrittura poetica, come nella musica la misura è un gruppo di note o di pause con una durata definita.
Non può esserci parola, necessità di verso, che non sia sostenuta dallo spazio bianco del silenzio, principio di una partitura scolpita nel respiro del tempo, fonte d’ogni possibile pronunciamento sulla pagina, inaudibile ed ineludibile: “Nessuno lo percepisce – il silenzio – […] come quando d’inverno attecchisce la neve / e non emette lamento”. Il poeta ha cura di ciò che svanisce nel silenzio e di ciò che da esso ci giunge in forma di una folata improvvisa, una foglia raccolta dal vento, una crepa nel muro, “la panchina [che, ndr] immobile mi scruta lungo il viale. “Dovrei aver cura della punteggiatura / del distacco dal bianco / - disunito - / dei silenzi a sfiorare la terra.” Il silenzio che è distacco e ascolto totali nel cuore della notte, abisso di giacenze e di rinvenimenti sprofondati nei ricordi e nell’oblio di ogni memoria, è anche il punto d’incontro de “le terre dei vivi e dei morti”. E’ considerando questa vicinanza al tutto e al niente, è partendo da questo spirito di appartenenza al flusso evanescente della vita e alla memoria vivida della morte, che il poeta può fingersi ortensia, aprirsi a un flusso di esistenza senziente, in cui le varie forme di vite presenti, future o passate, animate e inanimate, s’intrecciano fra loro, fondendosi in una sola sostanza assieme alle  tante manifestazioni vitali del suo essere in un tempo altro, non definito, un tempo senza tempo: “Sono fresia proclamata nella notte”, “Sono polvere, inesorabilmente, / perfino all’ombra, nei sospiri.”, “Sarò fossile nel tuo prato”, “Avrei voluto essere materia leggera”, “sono goccia tua di terra”, “ Sono un quadro sbiancato al sole”.
Dall’inizio della silloge il silenzio si dilata fino a sfiorare e invadere in tante immagini poetiche il campo dell’inesprimibile, ovvero del silenzio da cui non si torna se non in ombra di fiato. E’ lo stupore innominabile, la voce da rinvenire, l’opera che non si può compiere finché si è vivi, da completare altrove: “la lapide, scolpita / da un artista a corto di scalpello”, “i marmi impressi di memorie / (s)traccerebbero la voce / alle pietre sorde”. Qui, in questa dimora del silenzio, le cose, i ricordi, le parvenze del mondo possono essere nominate solo con la lingua del silenzio: solo “le parole simili al silenzio, rendevano l’assenza”.
Il termine “silenzio” è tanto fittamente ricorrente in queste poesie (sia in forma di lemma caratterizzante della raccolta, sia in espressioni attinenti e contigue alla sua sfera semantica: dal fiore che “abbassò la voce / tanto che tacque” ai “taciturni bordi” accanto ai quali le acquietate “paure: provano a far pace / con le ferite”) da indurre il lettore a riflettere su cosa sia in effetti il silenzio: questo silenzio.
Ci sono due versi che aiutano a chiarire qualcosa al riguardo, due versi appartenenti ciascuno a due poesie consecutive della prima sezione, il primo in Due fragili note (“In lontananza s’udiva un silenzio loquace), con significativo ossimoro, il secondo in Ed è silenzio (“Persino i miei silenzi ascolti?”), verso la cui icasticità è sottolineata, qui come pure in altri testi, da un effetto di straniamento del corsivo. Questi versi dicono di un silenzio che parla. Di un silenzio che in quanto parlante può essere udito. Si ricordino “le parole simili al silenzio” e il verso conclusivo di Assonanze, “Si fa tenue il respiro e accoglie il silenzio”. Il respiro, principio essenziale e condizione necessaria della fonazione, è origine del linguaggio e dell’ascolto. Dunque il silenzio parla: il silenzio ci parla: e noi lo ascoltiamo: e da lui siamo ascoltati. Nell’ascolto è l’accoglienza più totale. L’ospitalità è il cuore dell’ascolto, il centro del silenzio sconfinato. Anche mentre tacciamo e lo ascoltiamo, il silenzio ci giunge attraverso il linguaggio.
Nella poesia che reca il titolo Il confine del silenzio l’autore scrive questi versi: “Nessuno lo percepisce – il silenzio - / nessuno scorge la crepa nel muro, / o il vessillo del vento quando / s’accostano le nubi e irradia la pioggia.”
In questa dimensione il silenzio è lo spazio non frequentato, il visibile non scorto, da tutti i parlanti, da coloro che sono tali perché possono pronunciare parola e possono dire anche del suo silenzio. Qui, tuttavia, il silenzio si dice negandosi, parla un linguaggio non affidato alla parola, ma ad una percezione, inespressa e mai pienamente esprimibile. Il silenzio, questo silenzio di cui scriviamo, non è legato ad un’assenza di suoni, ma è qualcosa che viene dal centro di una profonda esperienza col linguaggio: qualcosa che anche quando non si consegna alla parola è comunque rinvenibile, percettibile in altro, in una sorta di linguaggio per accadimenti segreti, non sempre scrutabili nell’aperto della coscienza: una dicitura per segni, anche per ciò che accade al di fuori del nostro cerchio, della capacità e possibilità di farne parola. Il linguaggio delle cose: un linguaggio che chiede ospitalità al nostro.
“Nessuno scorge la crepa nel muro”. Però quel nessuno c’è. Quel nessuno è il poeta. Un nessuno che possiede nel silenzio la scintilla del linguaggio. Questo nessuno in quanto essere parlante può uscire dal silenzio e farci giungere anche la voce delle cose. Ecco che dunque la misura del silenzio è l’essenza stessa del respiro poetico.
La peculiarità della poesia di Cuorvo risiede in una spinta proliferativa di immagini, secondo il procedere del dettato poetico lungo una duplice traiettoria: l’una che introduce squarci del reale dall’esterno all’interno della sensibilità del poeta e l’altra che conduce dal di dentro alla manifestazione verso l’esterno di un’incalzante urgenza espressiva. “La brezza m’intenerisce le guance e lancia / un belato nelle praterie dell’azzurro”; “Il fiore chiedeva di cambiare tono / e il suo grido era fioco alito di vento”, “Se fuori è tempesta, mi comprimo / alla foce dei tuoi sospiri. […] Se fossi qui poserei il cielo nei passi”.
Certo queste due traiettorie non sono rigidi andirivieni, sono anzi un flusso continuo di proliferazione semantica, propria di una versificazione ricca di simboli e di metafore, che attraversa più contesti di decifrazione agli occhi del lettore e, in molti casi, dello stesso poeta, tingendosi sempre più di una enigmaticità precipua, privata e allo stesso tempo condivisibile. Il passaggio dal livello denotativo-connotativo della lingua alla polivalenza del simbolo richiede sempre uno sforzo inesauribile di comprensione da parte del lettore, che sulle tracce dell’autore compie un tentativo di viaggio ermeneutico-emozionale dalla convenzionalità dei codici all’individualità dello scrittore. In molti casi, come in questo di Davide Cuorvo, la musicalità del testo non è solo un’integrazione di senso, ma il viatico per una conoscenza altra della realtà, un procedere nel mondo la cui modalità di adesione al molteplice è stata soppiantata e violata dalla dominanza del pensiero razionalista moderno: una vincolante reductio ad unum.
La poesia intitolata La notte si apre con un simbolo di forte connotazione culturale, l’albatro. La capacità allusiva, plurivalente del simbolo è quasi immediatamente piegata al servizio di un’intenzionalità espressiva, mimetica dello stato d’animo dell’autore. Qui il volatile si svincola subito dal pensante retaggio di simbologia baudelairiana e viene ad acquisire una posizione defilata, appostato in cielo, in un punto non agevolmente concepibile secondo i criteri della geometria, “sugli angoli delle labbra rotonde”, quasi da osservatore tutelare delle sorti di chi è convocato alla presenza della propria notte, tra una fitta rete di metafore e la sapienza degli elementi: “Vorrei che [il vento, ndr] m’insegnasse a cantare la notte”.  E’ sempre in questa poesia che è possibile cogliere in maniera tangibile uno degli esempi più plastici dell’operare secondo le due direzioni di cui ho tentato di dire poco prima. Gli stessi elementi e aspetti della realtà osservati in questi versi della seconda terzina della poesia, che da fuori giungono a contatto con l’inconscio del poeta (“L’inquietudine attraversa la cruna / dell’ago e la pioggia cade dagli alberi dormienti”) subiscono più avanti un’alterazione semantico-emotiva, nel senso di una proiezione verso l’esterno, che li porta ad assumere una pregnanza inquieta, fortemente metaforica, con una drammatizzazione espressionistica in quegli arbusti di lacrime (“La notte è una fronte dove gemono i sogni / con gli arbusti di lacrime e i fiori a novembre”).

                                                                                                 RAFFAELE SCHETTINO






IL CONFINE DEL SILENZIO

Ho conosciuto il silenzio rintanato
nell’ombra, dopo le risa chiassose dietro
le case. Nessuno lo percepisce  - il silenzio -
nessuno scorge la crepa nel muro,
o il vessillo del vento quando
s’accostano le nubi e irradia la pioggia.
C’è solo l’insonnia a tramare in agguato.
Per questo mi astengo dal centro del mondo,
sa di amaro quel posto.
Approdo ad ogni notte con pagine vuote,
come quando d’inverno attecchisce la neve
e non emette lamento.
Rimango illuso a delimitare il mio passo,
a prosciugare i minuti, evitando il rumore.
Senza accorgermene definisco i dinieghi,
poggio un guanto ai singhiozzi.

*

L’ASSENZA

Incalza la notte e più il tormento
m’assilla.
Hanno scarpe consumate, i giorni
affacciati al balcone, stanchi del viaggio.
Mi assistono le pareti. Mi comprendono talvolta.
Non nascondo i buchi
nelle suole, la fuliggine nei capelli.
Mi sorreggono, sotto i tetti che non odo
pronunciare, e le case, e i sospiri. E l’ultimo
scorcio di cielo. Ho perduto appartenenza.
C’è un latrato dirimpetto al silenzio.
Come al crepuscolo, quando non è sera e la nebbia
accondiscende al mio tacere.
Vivo al fondo dei respiri, come schiavo.
Non ho mondo eppure appartengo:
abito l’ultima stanza del mio cuore.

*

LA NOTTE

L’albatro può finalmente appostarsi
nel cielo, sugli angoli delle labbra rotonde.

Nella notte secca è la luna che brucia
il respiro. L’inquietudine attraversa la cruna
dell’ago e la pioggia cade dagli alberi dormienti.

Perché piange l’alba non saprei spiegarlo.
La brezza m’intenerisce le guance e lancia
un belato nelle praterie dell’azzurro.

Nella notte non è mai un numero il cuore
ma un paesaggio e la sua ombra,
una chitarra dove gli uccelli riposano.

La notte è una fronte dove gemono i sogni
con gli arbusti di lacrime e i fiori a novembre.
E’ una spalla ancorata alla pietra
senza curve nell’acqua, né penombre ghiacciate.

Di notte vedo il vento correre incontro alle onde
abbassando le braccia e calcando la rena.

Vorrei che m’insegnasse a cantare la notte.

DAVIDE CUORVO



Davide Cuorvo
Raffaele Schettino













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